Venerdì 22 luglio 2022 è stata inaugurata ad Avezzano, presso l’Aia dei Musei, la mostra Trough Our Eyes di Still I Rise, che ha così raggiunto 85 città tra Europa e Stati Uniti d’America.
In questo modo, cittadini residenti in quella che Nicolò Govoni, il coraggioso e battagliero fondatore di Still I Rise, definisce la parte “giusta” del mondo, hanno potuto posare il loro sguardo sulle foto scattate da bambini e adolescenti, studenti delle scuole fondate da questa organizzazione internazionale.
Le immagini provengono da minori che vivono presso:
e sono stati curati e selezionati dalla fotografa Nicoletta Novara, che è stata docente di questi giovani che hanno voluto raccontarci com’è la loro vita di bambini e adolescenti in contesti di guerra, povertà, marginalità, segregazione e violenza.
La toccante e sorprendente mostra si snoda tra immagini crude, ma allo stesso tempo rispettose, quasi poetiche; così dissimili da quelle che siamo abituati a vedere nelle raccolte fondi di altre organizzazioni umanitarie.
Credo che la differenza la faccia il punto di vista, che il progetto di Still I Rise ha ribaltato: non l’adulto, di un’altra provenienza geografica, culturale e sociale, che guarda il bambino senza interrogarlo; ma il bambino che parla affinché l’adulto, anche lontanissimo, sappia di lui.
Le foto sono accompagnate sempre dalle parole del giovane autore che ha realizzato lo scatto, insieme al suo nome e all’età.
Il potere evocativo delle immagini ha fatto scaturire, nei partecipanti all’inaugurazione, delle plurivisioni che sono state poi condivise in gruppo, contribuendo a far sì che la voce di questi bambini “non resti inascoltata”, come si augura lo stesso Govoni.
Personalmente sono rimasta colpita dalla differenza di registro tra le fotografie realizzate dai bambini in Kenya rispetto a quelli che si trovavano in Siria.
Le foto che arrivano dal Kenya sembrano raccontare di una quotidianità in condizioni di povertà, marginalità e segregazione; in cui la paura di una violenza brutale, subita anche per mano di chi dovrebbe proteggerli, si impasta alla speranza di un miglioramento delle condizioni di vita nel futuro. I bambini si definiscono molto attraverso i gruppi di appartenenza, sia familiari che sociali, soprattutto per via femminile: il lavoro della nonna, la mamma che nutre, la sorella maggiore che si occupa del fratellino … in un modo più “comune” e vicino alle realtà svantaggiate delle nostre periferie e dei contesti sub urbani.
Le foto che arrivano dalla Siria, invece, sembrano lavorare più intorno a un trauma, quello della guerra che distrugge ogni riferimento. Ci sono immagini con un campo visivo che si restringe su un dettaglio che può fare la differenza come risposta a un bisogno primario (acqua, cibo, carbone…) o come argine all’angoscia (un sorriso, un finestrino da cui si vede la scuola, uno stetoscopio giocattolo…) e altre con un’ottica che si amplia fino alla desolazione e allo spaesamento (una distesa di tende o il vuoto di un quartiere bombardato). Di alcuni scatti colpiscono la luce e le immagini naturali: un tramonto, uno specchio d’acqua o la neve, come tensione verso una bellezza capace di consolare oltre gli orrori e gli errori umani.
La marginalità di cui abbiamo discusso in gruppo come operatori della salute psicologica, volontari, educatori, genitori e insegnanti, non va intesa solamente nel senso sociale di chi subisce gli effetti dei fenomeni di emarginazione e di segregazione, ma è stata ripresa come una condizione comune a quelle situazioni, così frequenti nella nostra società dell’abbondanza, in cui i giovani si trovano in uno stato di alienazione.
A partire dalla lettura dell’albo illustrato “Un grande giorno di niente” della raffinata autrice e illustratrice Beatrice Alemagna, si è discusso della difficoltà odierna, riferita da tanti genitori, nel sentirsi tali anche senza riempire di cose, attività e parole la vita dei propri figli.
Specularmente, anche tanti ragazzi faticano ad affrontare la mancanza, senza, ad esempio, dover riempire subito il vuoto con le offerte e le lusinghe della tecnologia; spesso rinunciando ad esprimersi e usando le immagini provenienti dall’altro piuttosto che crearne di proprie.
L’alienazione ci costituisce in quanto esseri umani da subito parlati dal desiderio di chi ci aspetta nel mondo, da chi ci da il nome, da chi interpreta il nostro pianto prendendosi cura di noi …
“Nasciamo portando sulla nostra nuca rasata – come dice Lacan – la scrittura dell’altro … il poema precede il poeta”
come ricorda Massimo Recalcati nella Lectio Magistralis del Premio Udine Filosofia 2020-2021.
L’adulto che tiene in braccio il neonato davanti allo specchio e che gli parla fiducioso di essere capito, indicandogli che l’immagine riflessa è proprio lui, Giovannino, mentre lo definisce (buono, capriccioso, bello, forte, piccolo, grande …) gli fornisce delle marche identificatorie che iniziano a organizzare qualcosa di quello specifico bambino a partire da quel caos originario del corpo in frammenti, in cui nemmeno le manine e i piedini, che sta imparando a muovere, vengono percepiti come propri.
Se siamo definiti dall’altro e ci definiamo a partire dall’altro, se siamo inscritti in una determinata storia familiare e sociale che ci precede e ci segna, quale margine di libertà ci resta, quale possibilità rimane per la nostra soggettività?
Freud ha parlato del “bambino poeta” come di colui che, attraverso la sua attività ludica, ricostruisce e reinventa le esperienze che vive, trovando un modo per affermare la sua soggettività (in Angelo Villa, Il Bambino adulterato, 2007, p. 12).
Come testimonia “Attraverso i nostri occhi”, i bambini, dopo essere stati messi un po’ al riparo dagli urti di una realtà matrigna (guerra, povertà, violenza, lavoro minorile, emarginazione…) e incoraggiati dall’interesse particolare di un adulto che ha sostenuto il loro processo creativo, attraverso le immagini e le parole possono riscrivere la loro storia.
Possono “fare del poema che l’altro ha scritto, una poesia”
come afferma Recalcati (ibidem).
Cambiamo il mondo.
Insieme
Un bambino alla volta
Mi piace molto questo motto di Still I Rise e lo trovo vicino alla psicoanalisi sia dal punto di vista dell’attenzione alle storie e alle situazioni particolari, non generalizzabili nemmeno quando si è esposti ai medesimi traumi; sia come riconoscimento di una dimensione di parzialità che non è limitante nel senso negativo che la società dei consumi darebbe oggi al termine, bensì realistico rispetto alla condizione umana e a ciò che ciascuno di noi può essere e fare, ovvero un pezzetto alla volta.
Chiunque si sia incuriosito, troverà presso lo Studio I Navigatori una copia del libro “Attraverso i nostri occhi”, disponibile per la consultazione.